La realtà, la fantasia e l’ascolto.

Posted on 3 Ottobre 2013

Possiamo ritenere reale soltanto ciò che esiste?

“-Ma come può esser vera, una storia così?- chiese Peter. –Perché me lo chiedi?- ribatté il professore. -Prima di tutto- cominciò Peter -come mai, se il bosco esiste veramente, non lo abbiamo trovato? Abbiamo guardato nell’armadio e non c’era proprio niente, signore. –E con questo?- ribatté il professore.  –Ma…se le cose esistono realmente, ci sono sempre. –Davvero?- commentò l’anziano signore.”  (C. S. Lewis- Le Cronache di Narnia)

Quando un essere umano ci racconta qualcosa, è così necessario distinguere se ciò che dice è reale?

E allora quando parliamo ad esempio delle emozioni che ci attraversano, i sentimenti, i disagi? Come funziona?

Non sarebbe forse più opportuno domandarsi se quell’umano ci dice dell’altro raccontandoci certe cose?

Pensiamo ad esempio a quando fantastichiamo, capita a tutti… Chi più chi meno ma a tutti accade o è accaduto di fantasticare. Perché? A cosa ci serve fantasticare?
Per capirci qualcosa proviamo a parlare del rapporto che possiamo stabilire tra fantasia e realtà.

Il padre della psicanalisi, Sigmund Freud ha scritto nel 1907 “Il poeta e la fantasia” dove assimila la capacità che ha il poeta di fantasticare, ai giochi dei bambini (Opera Omnia, vol. V, p.375, Bollati Boringhieri):

“Forse si può dire che ogni bambino impegnato nel giuoco è un poeta: in quanto si costruisce un suo proprio mondo o, meglio, da a suo piacere un nuovo assetto alle cose del suo mondo.”

Si fa riferimento qui all’idea che ognuno di noi, bambino o no, possa vedere e sentire le cose del suo mondo e della sua vita in un modo differente, e per lo stesso motivo possa anche raccontare come le vive, come le sente a partire ogni volta dall’assetto che ha dato alle cose del suo mondo.
Ciascuno a modo suo appunto!

Perché allora sentire l’esigenza di definire il modo di interagire con le cose che ci circondano come reale o fantasia?

Pensiamo a quante volte desideriamo fortemente di voler essere ascoltati nel parlare di qualcosa che ci riguarda da vicino. E’ cosi perché questo qualcosa è importante, per noi riguarda il nostro essere nel mondo e lo percepiamo come nostro.

Ciò che passa comunque tra le parole, sia che si tratti del gioco di un bambino o della fantasia di una donna, dice qualcosa di come si sente nel mondo in quel momento l’essere umano, e per questo ogni volta è fondamentale che si dia accoglienza ed ascolto senza necessariamente distingue se quel racconto sia reale o no.

Di nuovo c’è da chiedersi: ai fini di un ascolto del vissuto dell’altro, ha importanza questa distinzione tra reale e fantastico nel discorso di un essere umano?

Non dovremmo forse cercare di sentire cosa sta cercando di dirci l’altro raccontandoci le sue fantasie? Il fatto che usi la sua fantasia per comunicare non vuol dire necessariamente che egli sia slegato dalla realtà!!!
Infatti più avanti nello stesso testo precisa Freud:

“Il bambino […] distingue assai bene il mondo dei suoi giochi dalla realtà e appoggia volentieri gli oggetti e le situazioni da lui immaginati alle cose visibili e tangibili del mondo reale.”

Il bambino insomma nel gioco trasforma il mondo che ha intorno per farlo per un po’ un po’ più alla sua portata! Quindi è come di nuovo dire, che appoggiandosi alla realtà, il bambino quando gioca ma anche l’essere umano adulto quando fantastica, ci mette del suo e forse dovremmo tenerne conto quando ci troviamo ad ascoltare le parole di chi ci sta vicino.
Questo diverso modo di ascoltare l’altro è proprio della psicanalisi: per l’analista non ha importanza se quello che l’altro sta dicendo è effettivamente realmente accaduto, l’importante è il fatto stesso che lui lo stia raccontando. L’analista accompagna l’altro nel lavoro sul modo con cui quelle determinate cose sono emerse fra le sue parole. Il modo che egli ha di dirsele è determinante ed importante perché l’essere umano possa lavorare su stesso in analisi.

Se andiamo a leggere Roland Barthes dai “Frammenti di un discorso amoroso” troveremo molto ben descritto come ci si possa sentire distaccati dalle cose della nostra quotidianità, fuori dalla cosiddetta realtà a cui crediamo di appartenere, e quanto forte si possa sentire l’esigenza di prendere le distanze dal quotidiano che ci riguarda per rifugiarsi nella fantasia. (pag.72 e 73) :

“Aspetto una telefonata, e questa attesa mi angoscia più del solito. Cerco di fare qualcosa, ma non vengo a capo di nulla. Passeggio su e giù per la mia stanza: tutti gli oggetti – la cui familiarità riesce di solito a rincuorarmi – , i tetti grigi, i rumori della città, tutto mi sembra inerte, separato, siderato come un astro deserto, come una Natura che l’uomo non ha mai abitato.”  

“In un ristorante affollato, insieme a degli amici, io soffro (parola incomprensibile a chi non è innamorato). La sofferenza mi viene dalla folla, dal rumore, dall’arredamento. Una cappa d’irrealtà cala su di me dai lampadari, dai soffitti di vetro.”  […]

“(Il mondo è pieno senza di me; […] esso gioca alla vita dietro un vetro; il mondo è immerso in un acquario; io lo vedo vicinissimo e tuttavia separato, fatto di un’altra sostanza; cado continuamente fuori di me, senza vertigine, senza annebbiamento, nella precisione, come fossi drogato[…] )
Qualsiasi conversazione generale a cui sono obbligato ad assistere (se non a partecipare) mi strazia, mi paralizza. Mi sembra che il linguaggio che questi adottano, e da cui sono escluso, venga schernito più del dovuto da quegli altri: tutti sostengono qualcosa, contestano, trovano da ridire, si mettono in mostra.” 

“Io sono di troppo, ma, doppia perdita, ciò da cui sono escluso non mi fa invidia. Mediante un ultimo filo linguistico, questo modo di dire, ancora mi trattiene ai margini della realtà che a poco a poco si allontana e si raggela.”