Storia del rivelarsi della Parola ad un giovane medico. ( conclusioni )

Posted on 11 Novembre 2014

 

Leggendo il primo volume delle Opere di Freud, si nota come durante il trattamento delle sue prime pazienti egli si dispone quasi in attesa, lascia che il discorso si dia spontaneamente per vedere dove può arrivare. In fondo egli sente che nella seduta l’unico potere è quello della parola  sia nel lasciare che il domandare avvenga, sia nell’impedirlo. Freud riconosce che le sue pazienti si presentano a lui con dei sintomi ma in loro c’è qualcosa in più, un domanda che non ottiene risposta dal medico, perché non è di questa che ha necessità.

Questo modo di lavorare si rivelerà poi l’unico possibile per condurre il trattamento, infatti nel suo nuovo modo di ascoltare Freud  sente che quello che conta in seduta non è che il soggetto riporti gli avvenimenti della sua storia così come questi sono accaduti, è essenziale il modo in cui egli li ricostruisce, poiché in tale tentativo ogni volta aggiunge del suo: è il suo modo di far parlare un determinato avvenimento ad essere importante per l’analista, non la veridicità dei fatti. Ecco in fondo il perché della regola fondamentale : dica tutto quello che le passa per la mente. 

Si tratta di una grande opportunità per l’essere umano che si trova sul lettino: finalmente le parole sono libere di darsi così come vengono, se quell’essere umano riesce a creare dentro se la condizione necessaria perché questo accada.

Su questo tipo di ricostruzione agisce l’interpretazione dell’analista, non ha importanza che un determinato evento sia effettivamente accaduto nella storia del parlante, conta il fatto che egli lo esprima e proprio il modo che usa per dirlo a se stesso in analisi, indica la strada da seguire all’analista.

Il nuovo campo in cui Freud si trova a lavorare, è dunque quello della verità del soggetto che ha il merito di distinguere il suo metodo da una ricerca di scientificità: in questo modo non c’è niente di oggettivo, tutto l’interesse si sposta sulla unicità e originalità del singolo essere umano. 

Nelle libere associazioni lo scopo è quello di riempire lo spazio libero della seduta analitica attraverso il proprio vissuto, il proprio disagio, il proprio racconto, senza ricorrere alle evoluzioni linguistiche che l’analizzante si trova a mettere in pratica in ogni altra esperienza della vita. Tutto avviene in un modo naturale, l’altro parla, l’analista ascolta e il vissuto emerge spontaneamente tra le parole.

Freud fino dall’inizio della sua Opera sottolinea, in merito a questa funzione analitiche che proprio per la difficoltà del compito, sono necessarie una preparazione profonda ed una capacità di ascolto ed indagine che possono essere ottenute per l’analista soltanto attraverso l’analisi personale.

Fino dall’insegnamento del nostro grande maestro riconosciamo che le modalità con cui un analista può intervenire durante un percorso di analisi sono molteplici, poiché dipendono di volta in volta dal percorso che la singola seduta intraprende; tuttavia lo stesso Freud, sostenuto poi dal lavoro di Lacan si soffermano, nei loro lavori circa il cosiddetto intervento interpretativo o tematico dell’analista. Il motivo è piuttosto evidente: si tratta dell’intervento che più propriamente identifica la dimensione psicanalitica, secondo cui appunto l’analista, in un certo momento della seduta e in un preciso istante del percorso che l’analizzante sta compiendo, fornisce all’altro quella parola che gli manca, che non riesce a pronunciare.

Non si tratta dunque di una aggiunta alle parole dell’analizzante, l’analista non può sostituirsi al parlante come tale, ma piuttosto della diretta espressione di quella parola che l’analizzante «vede» ma non riesce in quel momento ad esprimere.

Proprio attraverso le sue parole per ciò che da lui è visto ma inespresso, l’analista sente come poter intervenire. Insieme a lui per l’analizzante è dunque possibile verbalizzare ciò che altrimenti non si sarebbe potuto dare in termini di parola.  

Il lavoro dell’analista è essenzialmente quello di condurre l’altro a lavorare sul suo sintomo, a convivere un po’ con lui per vedere in che modo riuscire a sbrigarsela, poiché il sintomo non è altro che un modo per parlare di sé. Il lavoro a cui ci si sottopone in analisi ha a che vedere con l’essenza dell’essere umano, con la sua capacità di cavarsela di volta in volta con qualcosa di inaccettabile e sconveniente riguardo a se stessi. Il fine ultimo dell’analisi è dunque che quell’essere umano non rifiuti e non chiuda le porte alla sua essenza. L’aiuto in questo caso, può venire soltanto dal tentativo dell’analista di far abituare il soggetto allo status di incertezza, incompletezza in rapporto a ciò che sente in stesso. Per tale motivo è spesso necessario lasciare andare l’interrogarsi del soggetto senza che vi sia necessariamente risposta da parte dell’analista, ed è per tale motivo che sono fondamentali i momenti di silenzio della seduta.

Molte altre volte l’analista è chiamato in causa per proteggere l’altro da una angoscia imminente che sta per irrompere dentro di lui. In questi casi l’analista letteralmente accompagna l’altro nel suo tentativo di sostenere l’angoscia. Si tratta della cosiddetta presa a testimone in cui si è chiamati ad intervenire nel discorso dell’altro come un sostegno, un conforto, in un momento in cui le parole aprono per l’altro all’abisso. Proprio in quel momento l’essere umano che si trova a doverle affrontare, ha bisogno di una base di appoggio (l’analista appunto) da cui continuare – o forse anche ripartire – il cammino.

L’essenza dell’analisi può consistere allora, nel farsi trovare dell’analista dal racconto dell’analizzante.

Questa ultima parte del lavoro sulla nascita della psicanalisi attraverso il suo rivelarsi a Sigmund Freud mi permette infine di sostenere che la posizione dell’analista è quella di una ignorantia docta e non ignorantia docens, nel senso appunto che l’analista non si pone come sapiente rispetto all’analizzante, ma come colui che può formarlo rispetto ad un modo di saperci fare riguardo ad un sapere che solo il singolo può detenere in rapporto a se stesso.